Langue italienne en bouche marocaine

L’introduzione dell’italiano LS in molti istituti statali del Marocco ha dato l’avvio a molte ricerche sull’insegnamento e l’apprendimento della lingua italiana, come il presente elaborato che trae spunto dall’osservazione fatta da Atie Blok-Boas (1994, p. 45) secondo la quale la lingua straniera appresa e prodotta dallo studente, in un ambiente educativo in cui la LM è dominante, raggiunge un buon livello di funzionalità comunicativa, ma non porta quasi mai a un risultato che si potrebbe definire near-native e ancora meno come veramente nativo, perché manifesta ancora diversi tipi di errori tra cui quelli di natura fonologica.

LA FONOLOGIA DELL’INTERLINGUA

L’acquisizione delle seconde lingue è stata, come osserva Pallotti (1998), studiata fin dall’antichità. In effetti, il problema di comunicare con i parlanti di altre lingue è stato sentito ogniqualvolta dei popoli si siano trovati in contatto per viaggi, affari, guerra, dall’antichità, passando per il medioevo e giungendo fino all’Età moderna. Si noti però che la discussione era sempre centrata sul modo migliore di insegnare le lingue: molto scarse erano invece le osservazioni sul processo di apprendimento in sé che diventa più complicato dopo la prima infanzia, anche perché le nuove strutture coincidono ben poco con quella della prima lingua. Prima di procedere avanti diamo uno sguardo su diverse teorie glottodidattiche che hanno interagito portando a risultati proficui in termini educativi.

Teorie glottodidattiche 

Un punto di partenza fondamentale sono gli studi di analisi contrastiva degli anni Quaranta e Cinquanta del ventesimo secolo. In quegli anni in psicologia e in linguistica dominavano la teorie comportamentiste o behavioriste che:

“Incarnent le comportement et le conditionnement opérants, le sujet apprend grâce à une modification du comportement provoqué par des stimuli de l’environnement” (Rolland 2011, p. 15).

L’idea di fondo delle teorie behavioriste consiste nel dare un’importanza centrale, nel processo di apprendimento, alla formazione di “abitudini”: apprendere una lingua veniva concepito come un “abituarsi” a produrre certi comportamenti mediante l’imitazione di un modello e la ripetizione prolungata delle sequenze di azioni che dovevano essere apprese; in questo modo veniva spiegata l’acquisizione della prima lingua e di tutte le abilità (Pallotti 1998, p.17).

L’acquisizione della seconda lingua poneva però particolari problemi: come si fa ad apprendere le abitudini che servono per parlare l’italiano quando ci si è già “abituati” a parlare l’arabo? Le abitudini linguistiche precedentemente acquisiste venivano allora concepite come un ostacolo all’apprendimento di nuove lingue, ed era considerato fondamentale, per una didattica efficiente il confronto della lingua e cultura nativa con quella straniera per identificare le difficoltà che  devono veramente essere sormontate nell’insegnamento (Lado 1957, p. 2; cit. in Selinker 1992, p. 10). Il filone di ricerche che nasce e si sviluppa in quegli anni viene così chiamato analisi contrastiva: i sistemi linguistici di partenza e di arrivo degli apprendenti venivano messi a confronto per poi estrapolare previsioni sulle aree in cui gli apprendenti avrebbero incontrato maggiori difficoltà. Per comprendere gli sviluppi successivi delle teorie sull’acquisizione della seconda lingua occorre spendere alcune parole sulla svolta fondamentale avvenuta negli anni sessanta con la linguistica chomskyana e la psicologia cognitiva. Chomsky (cit. in Pallotti 1998) proponeva una teoria dell’apprendimento completamente diversa da quella comportamentista: secondo lui, il bambino che impara la prima lingua non sta interiorizzando abitudini, non sta rendendo automatici certi comportamenti dopo averli osservati e praticati tante volte, non procede solo per imitazione di modelli linguistici propostigli dagli adulti, sta invece scoprendo delle regole. L’acquisizione non è un processo imitativo, bensì creativo: pur valendosi dei dati linguistici forniti dall’ambiente, il bambino li rielabora creativamente in una grammatica, grazie alla quale genera un numero infinito di frasi nuove, anche mai sentite dall’ambiente in cui vive. A tale proposito, Chomsky ritiene che:

“L’acquisition relève donc de propriétés innées et de la connaissance innée, qui concernerait à la fois les universaux que sont les catégories syntaxiques, les traits distinctifs phonologiques et les universaux formels” (Chomsky cit. in Rolland 2011, p. 19).

Chomsky (1995a) postula allora l’esistenza di una facoltà del linguaggio innata che permette al parlante, a partire da un’insieme di regole formali, di produrre tutte le frasi possibili nella sua lingua, e considera che:

“L’apprentissage de la L2 est lié à un ensemble de principes linguistiques innés, contrôlant la forme que les frases de n’importe quelle langue peuvent prendre…Un système inné d’acquisition (L.A.D. ou «Language Acquisition Device») permet d’intégrer les «donnés linguistique primaires»” (Narcy 1990, pp. 56-57, cit. in Rolland 2011, p. 19).

La ricerca di Chomsky spinge gli studiosi ad approfondire la conoscenza dei processi mediante i quali si forma nell’uomo la competenza linguistica o la conoscenza del linguaggio (prima in L1, poi in altre lingue), processi che non possono essere ridotti allo schema comportamentistico “stimolo – risposta – rinforzo”. Le critiche di Chomsky e altri al comportamentismo portano al nascere di quella che viene detta psicologia cognitiva. Questa nuova prospettiva, opponendosi al filone comportamentista, percepiva il bambino come attivamente impegnato nella ricerca d’informazioni per validare le ipotesi che in modo autonomo aveva formulato; quindi non è più obbligatorio attenersi, come facevano i comportamentisti, alla semplice osservazione di comportamenti, ma si introducono anche fenomeni che hanno a che fare con la vita mentale degli individui, approfondendo nozioni quali mente, memoria, attenzione, concetto, strategia. Mentre nel quadro teorico del comportamentismo l’apprendente viene visto come un agente passivo, nella psicologia cognitiva è concepito come un agente attivo, alla ricerca di dati per confermare ipotesi che formula autonomamente.

L’interlingua 

Nello studio dell’interlingua, la relazione tra lingua nativa e lingua d’arrivo è stata centrale, nonché all’origine dell’interpretazione per cui tutte le deviazioni dalla norma della lingua target sarebbero fenomeni di interferenza risultanti dal contatto linguistico con la lingua nativa (Mori 2007, p. 25). Storicamente, ogni riflessione teorica su L2 va fatta a partire dal concetto di “interlingua” proposto nel 1972 da Selinker per designare:

“Un sistema linguistico separato […] che risulta dai tentativi, da parte di un apprendente, di produrre una norma della lingua d’arrivo (lingua obiettivo o target)” (Selinker 1972, trad. it. 1983, p. 29).

Viene così pienamente riconosciuta la creatività dell’apprendente che, nei suoi tentativi di avvicinarsi alla seconda lingua, costituisce un sistema linguistico vero e proprio, dotato di regole e funzioni ben precise che nasce non solo in base all’input linguistico della L2, bensì anche attraverso processi di analisi, comparazione, generalizzazione e transfert, cioè di trasferimento di quanto già scoperto sia nella L1 che in una eventuale seconda lingua appresa in precedenza. La nozione di interlingua, essendo un sistema che non corrisponde né a quella della L1 né a quella della L2 con un notevole grado di variabilità, cerca di dare conto del fatto che le produzioni di un apprendente non costituiscono un’accozzaglia di elementi linguistici più o meno devianti, più o meno costellate di errori, ma un sistema governato da regole ben precise, anche se tali regole corrispondono solo in parte a quelle della lingua d’arrivo (Pallotti 1998, p. 21). Un ruolo importante è giocato dall’influenza della lingua materna. Con la nozione d’interlingua, vista come un sistema instabile ed in continuo cambiamento, l’apprendente diventa un soggetto attivo che formula ipotesi sulla lingua d’arrivo e costruisce un sistema provvisorio con i pochi mezzi che ha a disposizione tra cui il transfer.

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Table des matières

Indroduzione
1. La fonologia dell’interlingua
1.1. Teorie glottodidattiche
1.2. L’interlingua
1.3. Le transfer in generale
1.4. Il transfert positivo
1.5. Il transfert negativo
1.6. Interferenze fonologiche
1.7. La costruzione della competenza fonologica in LS
Résumé du chapitre 1
2. L’italiano (LS) di studenti arabofono-marocchini
2.1. Introduzione dell’italiano LS in Marocco
2.2. Una varietà non nativa: l’italiano LS
Résumé du chapitre 2
3. Breve presentazione sociolinguistica del Marocco
3.1. Le lingue del Marocco
3.1.1. La lingua araba
3.1.2. L’arabo marocchino
3.1.3. La lingua francese
Résumé du chapitre 3
4. Diglossia e bilinguismo
Résumé du chapitre 4
5. Fonologia del vocalismo italiano
5.1. Le vocali nella lingua italiana
5.2. L’articolazione dei suoni vocalici
5.3. L’uso dei fonemi vocalici nell’italiano standard
Résumé du chapitre 5
6. Fonologia dell’arabo marocchino
6.1. Il consonantismo dell’arabo marocchino (LM)
6.2. Le vocali dell’arabo marocchino
6.3. L’enfasi
Résumé du chapitre 6
7. Descrizione della ricerca
7.1. L’indagine
7.2. Metodologia della ricerca
7.3. Il campione
7.4. Raccolta dati orali
7.5. Il gruppo di controllo
7.6. Strumenti e metodi d’analisi
Résumé du chapitre 7
8. Analisi delle produzioni orali
8.1. Lo speech learning model (SLM)
8.2. Presentazione dei grafici
8.2.1. Primo anno
8.2.2. Secondo anno
8.2.3. Terzo anno
8.3. Analisi quantitativa e qualitativa della variazione linguistica
8.3.1. L’analisi quantitativa
8.3.2. L’analisi qualitativa: le difficoltà di pronuncia

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